La maglia nera della
provincia più povera d’Italia la indossa, nel
Sulcis, sudovest della
Sardegna,
la provincia di Iglesias-Carbonia. Secondo i dati ufficiali di Unioncamere, su circa 130.000 abitanti, un terzo sono disoccupati o in cassa
integrazione, un altro terzo pensionati. Una
Sardegna non di copertina, ma bella e fiera a suo modo, un tempo polo di assoluto interesse anche industriale per le ricchezze del sottosuolo, alluminio e
lana di roccia in primis.
Oggi, adducendo
mancanza di servizi e infrastrutture,
costi alti dell'energia, assenza di un
governo nazionale affidabile, le aziende vogliono andare via. Industria che appare come una dannazione e un contrappasso da pagare nella stagione della
chiusura degli stabilimenti e della
delocalizzazione. Lo dimostra il collasso del polo di Portovesme, con le fabbriche di
Ila, Eurallumina e Alcoa, in crisi, e la lunga lotta degli operai della
Rockwool per conservare il posto. Non ultimo, lo sfinimento dei commercianti, ormai privi di liquidità, subissati dai
pignoramenti. La lotta, nel caso dei 7.000 che si sono riuniti nel
movimento “Commercianti e artigiani liberi”, ha il volto, tra gli altri, di
Andrea Impera, leader del movimento, commerciante a sua volta.
Finanza chiarisce bene come, sulla sua stessa pelle, ha vissuto le dinamiche della crisi.
"La mia percezione - racconta Impera - risale a tre anni fa. Le cose già si limitavano a galleggiare, ma a partire da gennaio 2011
è crollato tutto. Le vendite sono calate tantissimo, i negozi hanno iniziato a perdere clientele, complici anche i centri commerciali. Io prima vendevo
300 camini all’anno, ora 20-30. I
costi per gli esercizi non sono più sostenibili. Prima reggevamo, anche grazie alle industrie. Poi hanno iniziato a
collassare, una dopo l’altra, e sono andate a morire con un effetto domino sulle buste paga e il
potere d’acquisto. Qualche settimana fa, sono stato da una famiglia, dove ormai mangiano la polenta a pranzo, e il latte a cena".
Al default industriale, si accompagna anche la
mancata valorizzazione di un territorio che pure potrebbe vivere di turismo. "Del
turismo se ne sono sempre fregati. Abbiamo spiagge e mari bellissimi e non li facciamo conoscere. Il porto di Sant’Antioco che fine ha fatto? I
soldi erano pronti ma sono stati bloccati. Su altri fronti, mi chiedo: se ci sono statistiche che dicono che ormai, nel
Sulcis, la
produzione ha livelli del -78%, è evidente che siamo catalogati come sottosviluppo. Perché dal governo nazionale non arriva la reazione? Questa non è teoria, fatti astratti".
Il movimento è attivo da mesi e, nella dilagante
protesta del popolo dei tartassati, finiscono la politica ma anche le esose richieste di Equitalia: "Noi abbiamo deciso di non appartenere ad alcun partito e ad alcun sindacato. Non diciamo che la politica non serve, il discorso è: non potete tirarci il braccio adesso che constatate che
siamo una realtà e quindi venite da noi e ci volete appoggiare. Andassero dietro la scrivania a risolvere i problemi che loro stessi hanno creato. In quanto a
Equitalia, noi stiamo chiedendo una
moratoria biennale, per ossigenarci e poi pagare: i soldi non ci sono". Il movimento è grande, composito e non di rado affiancato da altre forze, come il Movimento Pastori Sardi, ma anche casalinghe, pensionati. Il popolo, insomma.
"Dalle riunioni al
popolo in piazza - continua il leader del movimento -, il passo è stato breve anche se capiamo che non possiamo andare avanti per mesi a fare proteste o
scioperi. Ma io ho una certezza allo stato attuale: tra poco
la gente non la teniamo più, credo che a una vera rivolta di popolo manchi poco. Vogliono le risposte e in fretta. A Villamassargia, durante il presidio, ho visto delle
scene brutte, una situazione sfuggita di mano, gente che sputava sulle macchine che portavano in città i prodotti dei camion bloccati: siamo riusciti a placare l’ira della gente".
Conta la lotta ma anche avere una visione di futuro. Come nel caso della
Cooperativa Sociale San Lorenzo, che opera in molteplici settori, dall'edilizia alla falegnameria, operando anche nell'inserimento di persone che scontano pene in esecuzione esterna.
Giuseppe Madeddu, il presidente, si è speso molto, nel 2010, per rilevare la fabbrica della lana di roccia della danese Rockwool, a Sa Stoia, periferia di
Iglesias. L’obiettivo, rilevata la fabbrica, è quello di
produrre materiali per la bioedilizia riassorbendo anche personale.
La cooperativa faceva parte dell'indotto. Chiusa la Rockwool, desiderava
riconvertire la fabbrica. Ma, malgrado la presentazione del progetto industriale, e anche un riconoscimento come finalista del premio "
Eco and the City Giovanni Spadolini", a Firenze, lo scorso novembre, tutto è fermo. Spiega il presidente Madeddu a Yahoo! Finanza: "Noi, come San Lorenzo, abbiamo presentato lo scorso agosto il nostro piano ma
non abbiamo avuto risposte dai vertici competenti, assessori in primis. Il nostro è un mercato che ha valore di livello europeo, a fronte di paesi che hanno le competenze ma non le materie prime. Non è ancora partito nulla. Sono
70 mila metri quadrati di superfici calpestabili e 10 mila metri quadri in grado di ospitare iniziative industriali. Lo stabilimento è nato nel 1965, passato poi a Rockwool che a sua volta lo ha dato a noi, anche con una certa responsabilità sociale. Una cooperativa come la nostra
non ha liquidità ma proseguiamo nella ricerca di investimenti, con i nostri contatti, poiché né la Regione, né la Provincia e i relativi assessori si muovono: resta il
Fondo nazionale di sviluppo economico".
La sfida - sottolinea - è più complessiva, e vale anche per la
Sardegna stessa: "Siamo arrivati tutti insieme al 2012 e non possiamo più ragionare in termini regionali di
fatti economici. Bisogna avere il coraggio di parlare delle cose in maniera seria e concreta, senza fermarsi ai miti, alle leggende e magari a una certa idea di
identità sarda, che poi ci penalizza. Assistiamo, sul territorio, alla venuta di
imprese estere che lavorano con operai stranieri, sfruttano il territorio, ma senza coinvolgere i locali. Gli stessi che però non sono poi disposti ad andare 40 chilometri fuori porta per lavorare. C’è una
sottocultura che ci impedisce di confrontarci con altri paesi: il rischio è di avere le idee brillanti, ma non avere chi le traduce in lavoro".
Un discorso complesso da tradurre in atto in un momento dove
larghe fette di popolazione vivono in indigenza: "Le pensioni, i sussidi per le disabilità generano una ricaduta di risorse sul sistema. Poi certo, gli ospedali, le scuole, ridanno senso a un ambito dove comunque esiste un
doppio reddito, quello delle coppie dove lavorano ambo i coniugi. Eppure ormai, dati anche i segnali che arrivano dal continente, c’è un
eccesso di prudenza che abbassa ancora di più il livello generale. Lo stato di stallo in cui siamo è complessivo, tutto il primario si è fermato, la
mancanza di liquidità lede anche il sistema del commercio. Nessuno ormai fa più magazzino, non ci sono soldi per sostenere i costi. Noi, in cooperativa, cerchiamo banali
comodini che costano 40 euro e ci vorranno 40 giorni per averli. Lo stesso, 30-40 giorni per avere ricambi della macchina. Davanti a una domanda di assistenza con una crescita esponenziale così forte, anche la
diocesi non ha forza sufficiente: ormai persino la raccolta domenicale è crollata. Per lavorare sul territorio occorre farlo a più mani. Va sostenuta quella parte del
terzo settore che funziona. Non si può pensare che la carità cristiana sia la via".
Sul
fronte politico, invece, Madeddu ha corroborata esperienza per dire che c’è ben poco da sperare. Candidato alla
presidenza della Provincia, per il Pdl nel 2010, battuto da Salvatore Cherchi del Pd, eletto consigliere, si è dimesso nel 2011, sostituito dal sindaco di Sant’Antioco,
Mario Corongiu. Rivela: "Io non avevo mai fatto politica, ma sempre la libera professione. Mi sono fermato, ho dato le dimissioni, ma prima volevo
guardare i bilanci, quello di chiusura del 2010, quello di previsione del 2011. Abbiamo una provincia con 150 unità di personale, a fronte di 130mila abitanti e
23 amministrazioni comunali. Un apparato che fa paura. E quindi 23 giunte, 23 consigli, 1 consiglio provinciale, la giunta provinciale, 1 presidente di provincia, gli
assessori, un consiglio provinciale di 24 elementi. Una sproporzione talmente grande che dovremmo essere la
Silicon Valley italiana e invece siamo l’ultima provincia del paese. Si sfiorano costi da dieci milioni di euro, cinque dirigenti ci costano
ottantamila euro lordi l’anno a testa, il segretario provinciale 120mila euro lordi. Moltiplicando e sommando sono quasi mezzo milione di euro lordi all’anno. E la
Provincia amministra 29 milioni, ovvero le ripartizioni della Regione, non ha autonomia impositiva. Su 29 milioni di bilancio, quasi il 50% va via in varie spese che potrebbero essere risparmiate. A febbraio, su 29 giorni, ci sono state 22 riunioni della
Commissione Ambiente, dove ogni consigliere marca la propria presenza, pagata, ovviamente. Il tutto con una dinamica
'non vedo, non sento, non parlo', dove ognuno porta a casa i soldi e la responsabilità individuale resta sospesa". Fino al momento in cui ricade sulla testa senza riparo del popolo del
Sulcis.